giovedì 16 febbraio 2012

E lontano lontan... Francia

                       Quando arrivava l’estate e finiva la scuola noi andavamo sempre a mare, dove avevamo la baracca che mio padre costruiva ogni anno con i paletti delle agavi e con le foglie delle palme. La mattina facevamo il bagno, correndo come pazzi sulla sabbia per non scottarci, al pomeriggio, giocavamo a campo, a faddaru, a “dissi to’ mamma mi ti curchi” e verso sera, seduti a ruota in riva al mare, giocavamo al cucuzzaru. Ma questa era vita normale. La vera vacanza era poter passare un periodo in città, o comunque al Nord.

Per fortuna nella mia famiglia c’erano un sacco di zii, fratelli e cugini emigrati, chi stava a Milano, chi a Domodossola, Svizzera o Francia, così ogni tanto anche noi andavamo in vacanza.
Nell’estate dei quattordici anni toccò a me: sarei andata due mesi in Francia, da mia sorella che abitava ad Annonay (un paesino non tanto grande in Ardèche, che alle mie orecchie suonava come il Centro del Mondo Avanzato e che, avevo saputo, aveva perfino dato i natali ai fratelli Mongolfier). Prima tappa Milano, accompagnata fin lì da mia sorella Teresa che rientrava al lavoro dopo le ferie e da lì avrei proseguito con una mia cugina che viveva in città da molti anni e che appunto andava anche lei à l’étranger.
Partenza alle nove di mattina dalla stazione Garibaldi. Prima di salire sul treno vado all’edicola con l’idea di prendermi il solito Topolino. Una volta lì, però, cambio idea e compro Amica, tornando indietro col giornale sotto il braccio, fintamente disinvolta ma in realtà tutta emozionata per aver compiuto una scelta da “grande”.
Il treno era affollato e noi abbiamo trovato posto in uno scompartimento già quasi tutto pieno. C’era una famiglia di meridionali che andavano in Francia anche loro. L’uomo comincia subito a parlarci chiedendo di-dove-siamo-dove andiamo-cosa facciamo-e-perché. Mia cugina risponde, io tiro fuori il giornale e lo sfoglio avanti e indietro, senza in realtà leggere niente.
Dopo un po’ quelli si mettono a mangiare, tirano fuori un pane intero e una mezza mortadella che il capo famiglia tagliava e distribuiva “Favorite, favorite…”
A me la mortadella piace tantissimo, soprattutto quella tagliata grossa, (tanto che, quando ero piccola e pensavo che “guerra” volesse dire che ognuno può fare quello che vuole, mi immaginavo che, se veniva la guerra, potevo entrare nella bottega di Donna Ursulina, aprire la vetrinetta e agguantare la mortadellona che c’era dentro andandomene in giro a mangiarla a grandi morsi, tanto nessuno avrebbe potuto dirmi niente) ma quella volta in treno non ne volli accettare a nessun costo.
Uscii fuori nel corridoio e mi misi a guardare il paesaggio, fantasticando su quei paesini che punteggiavano colli e vallate, con tetti spioventi così strani e con i camini che fumavano, proprio come quelli dei disegni che facevo alle elementari.

Un po’ curavo il paesaggio e un po’ il corridoio: in fondo al vagone c’era un gruppo di ragazzi che suonavano la chitarra e cantavano ballate scouts. Come mi attirava il mondo di quelle canzoni, mi immaginavo bivacchi e spazi immensi, cavalcate e l’avventura a portata di mano. Ogni due e due quattro lanciavo un’occhiata timida da quella parte, con la paura e il desiderio che si accorgessero di me, ma nessuno mi notò.
Peccato, ma forse meglio così: ero sicura che se qualcuno mi avesse rivolto la parola sarei morta sul colpo.
E in fondo anche così un po’ facevo parte, di quel mondo: ero anch’io su quel treno e stavo andando all’estero, in Francia precisamente, non ero sottoposta alla implacabile tutela di mia madre (che non mi avrebbe permesso neanche di uscire dallo scompartimento) ero bensì affidata a una mia cugina, che era moderna e già da tanti anni viveva al Nord. Senza contare che indossavo il vestitino “Courrege” che mi aveva cucito Jole: bianco e blu con tre file di bottoncini che facevano un effetto positivo/negativo (blu sul bianco e bianco sul blu) quasi psichedelico (boh! Era una parola che mi piaceva tanto e dove potevo ce la infilavo).
Insomma avevo tutte le carte in regola per quel viaggio che mi avrebbe emancipato definitivamente dall’infanzia (oltre che dallo stereotipo della calabrese arretrata da cui assolutamente volevo prendere le distanze: non per niente avevo rifiutato la mortadella) e me la godevo e mi davo anche un po’ di arie.
Nel frattempo arriviamo alla frontiere che si trova proprio sotto una galleria tra le stazioni di Bardonecchia (in Italia) e Modane (in Francia). Passano le guardie a controllare i documenti. Sento quella leggera inquietudine che mi prende ancora oggi ogni volta che ho a che fare con l’autorità costituita. Ma so di essere in regola, pulita, ben vestita, ho anche il giornale Amica e so anche un po' di francese… per non dire che proprio in quel momento mi ero accorta, specchiandomi nel vetro del finestrino, che se mi posizionavo in una certa maniera, di tre quarti, si notava anche un po’ di seno.
Comunque per sicurezza rientro mi siedo al mio posto, riprendendo in mano il giornale, mentre mia cugina consegna i documenti.
Che strano quanto ci mettono. Però che carino quello giovane che è rimasto fuori, devo mettermi più dritta e cercare di posizionarmi di tre quarti… Certo che se questo qui non si toglie davanti…
"Il documento della bambina non è in regola: manca l’autorizzazione dei genitori”.
E’ evidente che io tutto mi sentivo tranne che una bambina ma ebbi immediatamente consapevolezza che parlava di me.
Intanto mia cugina non si capacitava “Ma come, non è possibile, ma sono stati in Comune a fare i documenti, e hanno detto che è tutto a posto…”
“Lei è la madre? No? E dunque la bambina non può espatriare se sul foglio non c’è l’autorizzazione dei genitori. E qui non c’è”.
Interviene anche il nostro compagno di viaggio, cerca di mettersi in mezzo in qualità di uomo di mondo “Ma su, per questa volta…” naturalmente con zero risultati. Insomma, mentre di colpo precipitavo nel girone dei fuorilegge per di più retrocessa al rango di mocciosa (addio seno, addio Courrege, addio Amica) arriviamo alla stazione di Modane e ci dicono che dobbiamo scendere e presentarci al posto di polizia. Giù dal treno, con le nostre valige (discreta quella di mia cugina, miserabile la mia) accompagnate dai poliziotti e per giunta dal signore meridionale che ripete a voce alta “Non vi preoccupate, ci parlo io, vedrete che sistemiamo tutto”.
Così che chi non se ne fosse ancora accorto, poteva comodamente affacciarsi al finestrino per godersi lo spettacolo delle due deportate. Per fortuna i ragazzi con la chitarra pareva non se ne fossero accorti.
Al posto di polizia c’era un gendarme terribile: grasso e con una divisa stranissima che mi sovrastava tempestandomi di domande “Mamma e papà lo sanno che vai in Francia? Sono contenti? Questa signora è tua cugina? Sei sicura?...” io rispondevo con un filo di voce sì, sì, sì e mi rincuoravo pensando che, giacché me lo chiedeva, avrebbe preso per buone le mie risposte. Il vicino di treno ci riprova “Garantisco io, Signor maresciallo, sono mie paesà…” “Non sono maresciallo! E lei chi è? E un parente? No? E allora se ne vada! Salga immediatamente sul treno!”
Sarà stato per quest’intervento che lo aveva fatto arrabbiare, ma pareva si fosse dimenticato che gli avevo detto che sì, che i miei genitori erano d’accordo che andassi in Francia con mia cugina.
Cominciò a fare una sceneggiata che lui non poteva farci niente, che lì eravamo già sul suolo di De Gaulle, che anche lui era ospite dei francesi, che non si poteva prendere questa responsabilità… Non ricordo che altro e neanche cosa diceva mia cugina, che non avevo il coraggio di guardare in faccia. Ormai ero nello sconforto totale e intanto il nostro treno se ne partiva con i nostri due posti vuoti, con il meridionale e la sua famiglia con la mortadella e con tutti quei ragazzi che cantavano suonando la chitarra.
Con una navetta ci riaccompagnarono a Bardonecchia dalla polizia italiana. Da lì avrebbero mandato un telegramma ai carabinieri di Bova Marina che avrebbero appurato se ero stata rapita o se invece stavo andando in vacanza da mia sorella Chicca in Ardechè, ad Annonay, il paese dei fratelli Mongolfier.
Mia cugina stava dentro con i poliziotti e io aspettavo fuori. Cominciavo a sentire freddino anche se eravamo in agosto, ma mi consolavo al pensiero che almeno lì non c’era nessuno di quelli del treno. Per far passare il tempo mi guardavo intorno. Ero meravigliata che sulle montagne ci fosse la neve.
Ogni tanto dall’ufficio usciva un poliziotto, mi guardava ma non diceva niente. Ad un tratto venne fuori mentre si fermava un treno e si mise a parlare con il macchinista “E allora, quando si va in ferie?” Beato te! Io devo stare qua al freddo. Ancora dieci mesi e poi via, si torna a casa” dall’accento capii che era meridionale come me, doveva essere lì a fare il militare. Ogni volta che veniva fuori lo guardavo come se fosse uno di casa.
Finalmente uscì anche mia cugina “Vieni che ci accompagnano in albergo. Ormai per stasera dobbiamo restare qui” Prendiamo un tassì e in cinque minuti arriviamo in albergo. Io ero preoccupata perché avevo in tutto settemila e cinquecento lire che per me erano una gran cifra ma chissà un albergo quanto costava. Per fortuna mia cugina non mi chiese soldi.
La disavventura cominciò a prendere una piega non del tutto spiacevole: era la prima volta che andavo in albergo ed ero la prima in assoluto della mia famiglia: chissà Serena e Jole quando glie lo avrei raccontato!
Anche Rina pareva aver superato lo choc, ma ogni tanto la sentivo canticchiare tra i denti “Mannaia li calabrisi, mannaia li calabrisi…” In camera, messe giù le valigie, si rilassò del tutto e anch’io tirai un respiro di sollievo. C’era un lavandino con due rubinetti: uno per l’acqua fredda e uno per l’acqua calda. Così ci lavammo lì dentro i piedi che erano gelati, poi uscimmo a fare una passeggiata per il paese. C’erano tante vetrine e nessuno ci conosceva, potevamo sembrare due turiste vere. Faceva freddo, però.
Tornammo in albergo per ora di cena. Al banco c’era una signora bionda piuttosto robusta e con una magliettina celeste aderente che ascoltava una cliente e ripeteva continuamente “Oui madame, oui madame…” Che soddisfazione, capivo tutto ciò che diceva, mi sentivo davvero internazionale.
In sala da pranzo capitammo al tavolo con altre due signore che erano lì per le vacanze, vestite da montagna con pantaloni di velluto e giacche di una lana fitta fitta e con i bottoni argentati. Da come ho capito, venivano lì tutti gli anni. Ci salutarono gentilmente ma poi si misero a parlare tra di loro
“Lo sai che c’è Mario?
“Certo, io vengo sempre qui proprio perché c’è Mario
“Com’è gentile Mario!
" E' bravo Mario!
“È bravissimo Mario
“Vero, vero!
(Caspita 'sto Mario, già me lo immaginavo come un cavaliere a cavallo con tanto di mantello e spada luccicante).
In quello arriva Mario e riprendono i salamelecchi, e lui era gentilissimo con le signore e doveva essere proprio bravo, ma era proprio brutto, cosicché me ne fregai di non far parte di quel gotha.
Non mangiai quasi niente perché a quel tempo ero inappetente e mi saziavo subito. Poi ce ne andammo a dormire.
C’erano due letti con un piumone alto come una montagna e due stranissimi cuscini fatti a cilindro. Mi addormentai quasi subito di un sonno popolato di nazisti che mi davano la caccia, intrighi internazionali, spie e agenti segreti, avventure in elicottero… finché mi svegliai e decisi che ne avevo abbastanza e che doveva essere ormai mattino.
Tra i due lettini c’era un interruttore appeso ad un filo e io, convinta che fosse quello della luce premetti per guardare l’orologio. Ma la luce non si accese e così capii che dovevo averne combinata un’altra e che le forze dell’ordine sarebbero quanto prima arrivate ad arrestarmi. Non osavo svegliare mia cugina e stavo in attesa con il fiato sospeso nell’attesa dei fatidici passi.
Da lì a qualche minuto li sentii che si avvicinavano e che si fermavano proprio davanti alla porta. Poi si sentì bussare. Avrei voluto sparire dalla faccia della terra ma riuscii solo a ficcarmi ancora più sotto al piumino.
Mia cugina si alzò e andò alla porta. Sentivo parlare, voci di donne (una era Rina) e di uomini, per un tempo che mi sembrò eterno.
Poi Rina rientrò in stanza e mi disse. “Dai, vestiti che ce ne andiamo. Sono arrivati Ninì e Fiorenzo, ci stanno aspettando di sotto”.
In un nano secondo fui pronta e scendemmo giù, dove trovammo mio cognato e mio fratello che erano venuti a prenderci.
Non vedendoci arrivare a Grenoble, dove ci aspettavano con la macchina, avevano intuito l’accaduto e avevano proseguito viaggiando tutta la notte fino alla frontiera. Alla polizia, sembrerà strano, capirono subito che tutto combaciava e che non eravamo due fuggitive e prima ancora che arrivasse la risposta dei carabinieri di Bova, ci “liberarono”.


Così, per la seconda volta in meno di ventiquattro ore, attraversai la frontiera e finalmente fui accolta in Francia.








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