martedì 29 gennaio 2013

Senza parole


Significante e significato: quanto il primo è parte integrante del secondo? Quanto la parola quale segno grafico e fonetico è fondamentale per definire i sottesi concetti? Non esiste il concetto senza la parola che lo possa contenere.

Questo postulato della linguistica sul quale potremmo approfondire dottamente (ma non lo facciamo, ok?) lo spiego con parole mie: se non c’è la parola, non c’è quella cosa che, essendoci la parola che la chiama, ci sarebbe. Esempi:
Esempio n. 1 Pedagogia. Dall'etimologia greca si capisce che il concetto è antico e quindi c'era anche ai miei tempi, perciò rettifico con "Moderna Pedagogia" la scienza secondo la quale bisogna essere molto cauti nel rapportarsi ai figli: sempre calmi, sereni, mai contraddirsi tra genitori in loro presenza, ascoltare, comprendere, stimolare, incoraggiare ecc. ecc. Quella cosa insomma per cui, se ti succede, in un momento di sfinimento, di mollargli un ceffone (a quel despota di tuo figlio) poi ti rimane il senso di colpa a vita. Che se ti diventa un delinquente o anche solo un emerito stronzo, può esser tutto dipeso da quella volta là.
Fortunatamente (per loro) i miei genitori non si preoccupavano affatto dei possibili traumi infantili conseguenti alle tragedie greche che periodicamente venivano rappresentate a casa mia (di solito in concomitanza di feste comandate). Ritenevano normale punirci anche fisicamente (ho un flash di una mattina che mio padre accompagnò da casa a scuola mia sorella Serena che non voleva andarci “cu 'na virghedda" colpendola cioè, ogni volta che la raggiungeva, con una specie di piccola frusta).
Non chiedevano scusa se si accorgevano di averti incolpato a torto, valeva per quella volta che non ti avrebbero scoperto.
Non erano malvagi. Solo che, non contemplando il loro vocabolario la parola pedagogia (moderna) andavano lisci come l’olio: facevano, e quel che facevano era ben fatto.

Esempio n. 2 - Anoressia
Da bambina non mangiavo quasi niente (o per essere più precisi odiavo la pasta che era quello che si mangiava ogni giorno a casa mia). Se avessi potuto avrei saltato volentieri il pasto di mezzogiorno perché per me quando era ora di sedersi a tavola iniziava l’incubo: la pasta – la pasta grossa soprattutto - mi faceva venire gli urti di vomito. La mandavo giù senza masticare, per non sentire quel frastagliamento viscido in bocca, e dopo due tre bocconi non ce la facevo più.
Mia mamma la prendeva come un’offesa personale, frutto della più spietata ingratitudine filiale, che si accaniva contro di lei che schiumava dalla mattina alla sera e si faceva in quattro per noi e questo era il ringraziamento? Mio padre, filosofo, cercava di stemperare il dramma affidandosi alla scienza: “ma non vedi che la sedia è troppo alta? In quella posizione lo stomaco è compresso, come può avere fame? Spostatela perdio! un'altra sedia!”
Io avrei tanto voluto compiacerlo e dimostrare che la sua teoria era giusta, ma sapevo che neanche in piedi, neanche su un'astronave in completa assenza di gravità avrei mangiato quella pasta.
Non serviva la buona volontà, non servivano le lusinghe, non servivano le minacce.
Dunque non mangiavo ed ero così magra (anche un po’ curva) che mia mamma mi obbligava a mettere tre o quattro sottovesti – di quelle che mi faceva lei – in modo da “arricchirmi”.
Per fortuna a quel tempo non esisteva la parola anoressia, quindi non ero anoressica. Semplicemente inappetente, una cosa che non fa paura, che non assume quel carattere di fatale inappellabilità.
Mia mamma, dopo aver espletato il proprio compito educativo, declamando con enfasi la sua sventura di madre incompresa, si rivolgeva ad altri rimedi infallibili e/o miracolosi, attingendo a piene mani sia alla scienza medica (sciroppi schifosissimi e pelosi) che al “sentito dire”.
Così io sperimentavo le cose più strane: “i pira i mbernu”, una qualità di pere invernali durissime che le mie sorelle avevano il compito di fare bollite e darmi da mangiare a merenda; un bicchierino di Vov ogni mattina, una fettina di carne a cubettini a merenda (io masticavo, masticavo fino a farla diventare stoppa e poi ero costretta a sputarla). Ma il pezzo forte erano le cose amare: mia mamma era convinta che “aprivano l’appetito”. Così per un certo periodo mi obbligò ad ingollare, prima di pranzo, un cucchiaio colmo di “Ferrochina Bisleri” un amaro con non indifferente gradazione alcolica...
Sempre per le proprietà intrinseche delle cose amare, verso gli otto anni, io avevo l’obbligo di bere una birra a ogni pasto. Mi ricordo che le compravamo a cassette (le Peroni piccole) e le tenevamo sul balcone. Io avevo una specie di calice di terracotta tutto decorato.



Della serie: potevo diventare alcolizzata… invece non amo particolarmente né vino né birra e detesto gli amari.



domenica 6 gennaio 2013

La befana ovvero della lotta di classe


Che brutta vestina che ha Giovanna! Che brutta vestina che ha Giovanna!” (quelle antipatiche di Muccetta e Vittoria).
Io non rispondevo ma mi vergognavo, mi pareva che tutti guardassero con disprezzo quell’indumento sfilacciato e sbiadito che avevo addosso. Vedevo intorno a me solo facce cattive, e avevo il terrore di incontrare il bambino di Marsuddia.
Mi ero sentita male, avevo vomitato e le suore mi avevano tolto il grembiule per lavarlo, così addosso mi era rimasta quella brutta vestina che non era una vestina ma una sottana di quelle che mi faceva mia mamma tagliando maniche e colletto ai vestiti vecchi (tanto sotto il grembiule chi ti vede...)
Per fortuna dall’altra parte del cortile vidi Luciana, la raggiunsi e mi attaccai alla sua mano.
Luciana era anche lei una di Tripepi, e io più che amarla la invidiavo. Suo padre era il padrone del mulino e a lei le sottanine sua mamma glie le comprava bell'e fatte, con le bretelline e il merletto. Luciana aveva la biciclettina, Luciana aveva una bambola così bella che non ci faceva giocare nessuno. Quando le chiedevano “Luciana,  und'è a bambula?" lei ,che non riusciva a dire “a sarbai”, che vuol dire l’ho messa via, l'ho conservata, rispondeva “a tabbai”.

Tutte le fortune a Luciana, e non sapeva neanche parlare!
Già allora mi interrogavo sul perché di certe differenze, e sentivo che non era giusto che loro erano ricchi e noi no.
Comunque, anche se avrei voluto avere anch’io quelle belle cose, in genere me la mettevo via facilmente, anche perché ero presa dai giochi e dalle avventure capitanate dalle mie sorelle grandi. Quello che proprio non mi andava giù, però, era il fatto della Befana…
Ma perché, pensavo, se lei (la Befana) gira di notte con la sua scopa e il suo sacco, e butta a casaccio i regali nelle case dove ci sono bambini (e bisogna considerare che noi abitavamo nello stesso rione, proprio vicini vicini) com’è che la mattina del sei gennaio, quando ci troviamo tutti in strada a mostrarci i regali ricevuti, io e le mie sorelle possiamo mostrare al massimo una collanina di plastica colorata, una bambolina di pezza, Luciana esibisce bambole automatiche che bevono da sole, suo fratello Peppinello elmi con tanto di cimiero e corazze da antichi romani, spade luccicanti?!
Non mi capacitavo che la Befana fosse  così sbadata e portasse quel po’ po’ di regali proprio a loro che già erano ricchi di suo!

Quel giorno però misi da parte la lotta di classe e mi attaccai a lei, pronta a seguirla ovunque. Non le mollavo la mano. Mi sentivo a disagio e bisognosa di protezione...


Post più popolari