giovedì 15 aprile 2010

LA POLITICA

Per non cedere allo sconforto dovuto alla deriva barbarica che mi pare trascini il nostro paese verso l'apatia e il disinteresse della cosa comune, voglio rievocare come si respirava "la politica" a casa mia, ai miei tempi...



Mio padre era rrussu. A casa mia eravamo tutti rrussi, con due erre.
Fin da piccola io lo sapevo che eravamo rrussi: infatti quando passava il treno noi salutavamo con il pugno chiuso.
Quando c'erano le votazioni, ai comizi dei comunisti mio padre era sempre sul palco a fianco dell'oratore.
Una volta, che doveva venire un deputato di Roma, mio padre disse che dovevo salire sul palco anch'io per dargli i fiori.
Passammo il pomeriggio intero: io in piedi su una sedia e mio padre che mi faceva ripetere la stessa frase. Che avrebbe dovuto essere sempre la stessa, ma lui la modificava ogni volta:
- Offro questo fascio di garofani rossi al compagno onorevole Mario Zagari.
Io ripetevo:
- Offro questo fascio di garofani rossi al compagno onorevole Mario Zagari.
- No! fascio no! Sennò sembra che siamo fascisti …
Di nuovo...
- Offro questi garofani al compagno onorevole Mario Zagari
- Ma non c'è più la parola rossi. Deve esserci il rosso! Devi dire:
- Offro questo mazzo di garofani rossi - rrossi, mi raccomando, rrossi, al compagno onorevole Mario Zagari…
Io ripetevo giusto, ma se lui cambiava ogni volta, logico che poi mi confondevo...
Mio padre si arrabbiava, sbraitava, bestemmiava, sudava, poi mi prendeva con le buone e ricominciavamo daccapo.

La sera andammo al comizio e mia mamma mi accompagnò dietro il palco, dalla parte della stazione. Sentivo il verso di un uccello in quattro tempi.
A un certo punto mi fecero salire, però non vedevo i fiori. Ero preoccupata perché come facevo a dire "Offro questo mazzo di garofani rossi al compagno onorevole Mario Zagari" se non ce li avevo?
Finalmente arrivò qualcuno con i garofani e mio padre mi prese in braccio.
Eravamo di lato al compagno onorevole che gridava. Era molto arrabbiato contro i nemici del popolo che facevano venire la schiena curva alle raccoglitrici di gelsomino.
Gridava e sputava, sputava e gridava: gli spruzzi di saliva uscivano dalla sua bocca come scintille luminose che si spegnevano dopo una breve parabola sul microfono. Non seguivo più tutte quelle parole complicate, e mi misi a pensare se anch’io ero un uccello che potevo volare e cose di questo genere...
Il comizio finì, applausi, qualche commento dal pubblico, mio padre che incalzava - Avanti Nina, tocca a te! … Toccava a chi? A me!?
Ah sì, la frase “Offro questo mazzo di garofani - e ce li avevo – rrossi - con due erre – al compagno onorevole Mario Zagari”
La sapevo perfettamente. Mio padre mi sporse in avanti...avvicinandomi al microfono tutto coperto di saliva!
Io, giuro, volevo… volevo… cioè no, non volevo. Assolutamente non volevo. Non volevo deludere mio padre, ma non dissi una parola.

Comunque era bello quando c’erano le elezioni a Bova! La sera andavamo a sentire il comizio, camminavamo tutte allineate con mia mamma che si metteva la sciarpa con le frange e quando passavamo davanti al cortile con i gelsomini diceva “Puh che puzza!”. Ascoltavamo il comizio dalla piazzetta e poi il giorno dopo c’erano i commenti. Se l’oratore era dello schieramento avversario era stato stupido e ridicolo, se era uno dei nostri era stato intelligente e divertente. Ancora più bello era a casa mia il pomeriggio che precedeva un “nostro” comizio, perché i compagni portavano su da noi i microfoni e l’amplificatore per provarlo e io e le mie sorelle ne approfittavamo per fare le star: cantare, imitare i nostri beniamini della televisione, ché ci sentivano fin dalla piazza.
Allora era tutto molto facile: c’erano i buoni e i cattivi e, pensate un po’ che fortuna, noi eravamo tra i buoni!

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