mercoledì 25 gennaio 2012

Micu

Queste scarpe non sono più buone neanche per la campagna, si sono tutte sfondate e si riempiono di terra e di sassi.

Il mese prossimo vado a Reggio e me ne compro un altro paio.
Quasi quasi mi vado a provare quelle che ho visto domenica nella vetrina di Lopresti, sul Corso. Sono all’ultima moda: gialle e tutte bucherellate davanti con la punta stretta.
Che sete! Non si resiste sotto questo sole!
Finisco questa fila e poi vado a farmi una bella bevuta.
E mi bagno anche la testa. Meglio stare attenti… io poi da bambino c'ho avuto il “chiodo di sole”  e con quello non si scherza! Mi ricordo che quella volta i miei mi portarono a Pietra Pennata da una vecchia che lo sapeva togliere, e che quando quella mi appoggiò un bicchiere pieno d'acqua sulla fronte, pronunciando parole strane che io non capivo, l'acqua cominciò a bollire.
Micu lavorava e fischiettava, fischiettava e lavorava. Con calma. Era bravo a ridurre al minimo la fatica. Aveva studiato fin nei minimi particolari, prima di cominciare, il lavoro da fare. Così ora non sprecava neanche un gesto. Sapeva calibrare ogni mossa, aveva a portata di mano tutto ciò che gli occorreva e non doveva fare avanti e indietro a prender le cesoie o il fil di ferro o il coltello.
A un tratto avvertì una strana sensazione, che mise i suoi sensi in allerta. Percepì una presenza alle spalle, qualcuno lo stava osservando.
Invece di girarsi per controllare, si abbassò ancora di più, come per concentrarsi meglio sul lavoro. Si curvò tanto da poter sbirciare da sotto in su.
Scorse due agili caviglie che terminavano la loro corsa sprofondando in due scarpe piuttosto malandate. Poi, “risalendo” con lo sguardo (benché fosse tutto a rovescio) trovò il seguito.
Ciò che vide gli sembrò sufficientemente interessante da farlo raddrizzare e girarsi contemporaneamente con una mezza capriola.
Si trovò davanti una ragazza più o meno della sua età che lo fissava come se fosse un animale.
Gli parve magra “come una buona capra”, i capelli lisci legati in due piccole trecce, gli occhi scuri infossati e seri.
Con il suo spirito buffonesco le fece un ampio inchino da cavaliere, sorridendo come un gatto.
Le guance della ragazza, che sembravano due pesche, divennero viola quando arrivò Don Saverio che le tolse malamente di mano il fagotto che portava, mandandola via con un cenno. Doveva essere sua figlia.
Micu si rimise a lavorare fischiettando. Pensava alle scarpe gialle, a quelle sfondate della ragazza, a un bel vestito per sé color fumodilondra con una righina bianca, e la giacca con gli spacchetti laterali.
Pur mantenendo il suo solito ritmo, lavorava meccanicamente, inseguendo il filo dei suoi pensieri che a partire dalla scena di prima lo portavano via via a perdersi in mille fantasticherie. Si pavoneggiava tutto, nella sua testa, pensando alle “feste a ballo” a cui si sarebbe presentato, tutto “vestito di tubbu”, suscitando l’ammirazione delle donne e l’invidia dei maschi. Si inventava nuovi passi e gesti spiritosi che avrebbe potuto inserire nella “sua” tarantella, ballo di cui, modestamente, poteva ritenersi campione. ( La tarantella calabrese è particolare: ballano due alla volta mentre gli altri presenti si dispongono tutt’attorno formando una ruota. Il maestro di ballo guida la danza scegliendo tra gli astanti chi far entrare di volta in volta per sostituire il ballerino più stanco (o non abbastanza bravo). Ha gesti e passi di base codificati, ma i più bravi la “infiorettano” con mosse e trovate personali: finti affondi con il braccio teso come fosse un coltello, mimando una specie di duello, se a ballare sono due uomini, oppure inseguimenti e inviti come in un corteggiamento amoroso, se i ballerini sono uomo e donna.) Non vedeva l’ora di ritrovarsi in paese, ritornare ai suoi amici , ai suoi giri, alla prossima festa.…Certo però che in paese la giovane figlia di Don Saverio (chissà come si chiamava) non ci sarebbe stata! Peccato. Ma dopo tutto che importava? E non c’erano forse Rosa e Cata e Cettina che lo aspettavano? Altroché!
Ce n’erano tante che lo guardavano con occhi timidi e speranzosi, lui si lasciava ammirare ed era gentile con tutte, ma in definitiva non sceglieva nessuna.
… E se per fine mese si fosse fatto festa da quelle parti? Magari per festeggiare la fine dei lavori? Così, tanto per farsi una ballata!
Ben pensato! Sarebbe stata una bella opportunità per vedere meglio come era fatta la giovane di cui, prima, nel poco tempo a disposizione, non aveva notato che gli occhi.
Doveva trovare il modo di buttar lì l’idea con Don Saverio, sondare il terreno senza dargli a intendere chissà che, e capire se avrebbe consentito alle sue figlie di partecipare…
In fondo feste così se ne facevano spesso, e i giovanotti e le ragazze si svagavano innocentemente, impegnandosi in appassionanti gare di resistenza, senza alcuna malizia e sempre con il massimo rispetto.
Tornò a concentrarsi sulle viti: c’erano delle manovre impegnative da fare e da cui dipendeva il buon esito del lavoro, passaggi delicati che richiedevano la massima concentrazione. Andò avanti così tutto il pomeriggio, senza pensar più né alla festa né alle scarpe né alle ragazze; ma sempre canticchiando contento.


Bene, per oggi ho quasi finito. Anche questo piede di vite è a posto: ho tagliato via alla perfezione tutti i tralci vecchi e ho lasciato un solo “capo di frutto” e lo “sperone”, come mi ha insegnato quel mio amico astigiano che incontrai l’anno scorso alla festa della Madonna di Polsi. (Questa tecnica di potatura dalle nostre parti non la conosce quasi nessuno, anzi forse solo io e ‘Ntoni. È per questo che ci chiamano da tutte le parti e ci pagano bene, e ci trattano con ogni riguardo).


Quella volta, a Polsi, aveva anche comprato un binocolo con cui, quando era alla “marina”, si divertiva a esplorare l’orizzonte, cercando di individuare le navi che passavano lontane e immaginandosi dove potevano andare e cosa trasportavano, facendo finta di esserci anche lui sopra…
La sua immaginazione scatenata si riattivò e lo riportò dritto dritto all’idea di fare una festa a Marucumbu. Si convinse che doveva a tutti i costi riuscire a organizzarla.
Ne parlo con 'Ntoni, stasera, mentre ce ne andiamo a casa, e sento che mi dice. Tra me e lui, di sicuro, il modo lo troviamo.


Si alza e va a prendere la “bumbuledda” dell’acqua che è incastrata, al fresco, tra due rami. Se la appoggia alla spalla e la inclina, bevendo a gargarozzo da un buchetto laterale.
Ah che buona, proprio ci voleva! Per fortuna è ancora abbastanza fresca.
Si ferma, soddisfatto del lavoro e neanche tanto stanco. Aspetta 'Ntoni che sta per finire e intanto si siede, appoggiando la schiena al tronco nodoso di un ulivo e guardando lontano.
Come se fosse al cinematografo, proietta davanti a sé la scena del ballo che si farà, si immerge nell’atmosfera dei colori dei profumi e dei suoni della festa, ode le risa e il richiamo dei suonatori:
“Veniti e ballati / Chista è ‘a vera tarantella calabrisi/ d’omini degni e giuvanotti ‘i basi”! Attacca, Milea Leone!”  (è la presentazione che ogni gruppo di suonatori fa del pezzo che si accinge ad eseguire, vantando la propria esecuzione come la più autentica della tradizione. Una formula di richiamo e di presentazione del miglior suonatore)  
Ed eccolo lì, mentre l’organetto impazza, tutto tirato a nuovo e con le scarpe fiammeggianti, con dentro i piedi che si muovono da soli non appena sentono i primi accenni del suono, guardandosi intorno per vedere chi balla, aspettando il momento buono per fare vedere chi è, soprattutto a chi ancora non lo conosce…
Chissà se la figlia di Don Saverio sapeva ballare (con le sue trovate l’avrebbe fatta ridere di sicuro!)
Chissà com’era quando rideva…
Chissà come si vestiva alla festa…
Chissà se portava già le calze di seta
(magari quelle con la riga di dietro) come le più moderne giù al paese…
Chissà se era mai stata al cinematografo…
Chissà…
Chissà…


Chissà perché (eppure non gli era sembrata un granché quando l’aveva vista) ma gli era rimasta come una voglia irresistibile di vederla ancora, di guardarla meglio, di parlarle, di sentire la sua voce...

lunedì 9 gennaio 2012

La fujtina

Incoraggiata da un blogger amico, pubblico un mio racconto, in merito al quale devo fare qualche precisazione (soprattutto per chi, leggendolo, pensasse di riconoscere luoghi e personaggi):
benché sia ispirato a fatti realmente accaduti, e benché io non abbia saputo rinunciare ad usare i veri nomi dei protagonisti, ho usato liberamente i materiali a mia disposizione, incrociando le memorie, riempiendo i vuoti, aggiustando e inventando a mio piacimento...
  
Quella mattina Mela si era alzata ancora più presto del solito.
 Era sempre la prima, in casa, a venir giù dal letto al mattino, sia in estate, quando era bello godersi il fresco da sola mentre gli altri dormivano, che durante l’inverno, quando veniva giù dal letto a piedi nudi e tutta intirizzita correva ad accendere il fuoco.
Si scaldava un po’ di caffè d’orzo avanzato dalla sera prima, addolcito col miele e poi fuori… A volte usciva di casa che non ci si vedeva nemmeno, a inventarsi i lavori più strani senza rendersi conto dei pericoli, come quella volta che si era inerpicata a raccogliere fichi d’india, guidata dal bagliore dei frutti rossi che rilucevano come lumini nell’oscurità. Quando infine sopraggiunse l’alba, si rese conto di essere stata per tutto quel tempo in bilico su un burrone.
Quella mattina era estate e c’era già luce e il sole non avrebbe tardato a infuocare la campagna.
Rimase a casa e fece toletta con più cura del solito: si lavò la faccia, si insaponò il collo e poi bene dietro le orecchie, pettinò a lungo le trecce.
Voleva finire di cucirsi la gonna che si stava preparando per la festa di S. Anna. Trovò ago e filo e si mise seduta sull’uscio di casa, un asciugamano steso sulle gambe a preservare il lavoro e i piedi appoggiati a un’altra sedia. Doveva fare l’orlo, una serie di punti minutissimi e invisibili, e poi aveva in mente di aggiungere qualche abbellimento: dei piccoli fiocchetti di nastro rosa proprio dove si aprivano i due piegoncini sul davanti che davano ampiezza alla gonna.
Pensò con eccitazione che poteva anche indossarla, con la scusa degli ultimi ritocchi, e magari pavoneggiarsi un po’, come se ci fosse “qualcuno” ad ammirarla.
Se “qualcuno” fosse passato davanti alla sua porta aperta, magari con la scusa di chiedere un bicchiere d’acqua, ecco che l’avrebbe vista tutta elegante!


Chi potesse essere questo “qualcuno” non lo pensava con le parole ma lo aspettava con i suoi sensi di diciassettenne allertati e in subbuglio…


Il padre di Mela aveva ingaggiato due giovani di S. Pasquale per fare gli innesti alle viti. La sua era una famiglia di piccoli coltivatori diretti piuttosto agiata: a Marucumbu i terreni erano buoni e rendevano bene. I suoi avevano perfino un servo. Di quando in quando Don Saverio chiamava gente esperta per i lavori più delicati, come questa volta: non si trattava di braccianti, ma di lavoratori capaci e tenuti in una certa considerazione.
Mela li aveva visti due giorni prima, quando era andata a portare la colazione a suo padre come faceva spesso. Una pagnotta di grano duro, che loro stessi cuocevano nel forno di pietra, un pezzo di soppressata e fave fresche, che erano di stagione e suo padre ne andava matto.
Andando, sapeva che c’erano altri contadini, e sua madre le aveva dato anche un’anforetta di vino, la tipica bumbuledda di terracotta. Quella che, oltre alla solita imboccatura, ha un forellino nella parte alta da cui i veri uomini, appoggiata la brocca alla spalla e inclinatala elegantemente a mano rovesciata, bevono a gargarozzo.
Quando arrivò e vide quei due giovani che lavoravano curvi a petto nudo,  rimase come imbalsamata a fissare le goccioline di sudore che imperlavano le larghe schiene, finché non arrivò suo padre che le strappò brusco il fagotto dalle mani e la rimandò indietro con un cenno del capo.
Non una parola era stata detta, ma uno dei due si girò e le fece un cenno di saluto al quale lei non rispose.

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