mercoledì 11 settembre 2013

Hic sunt leones


Il viaggio prima del viaggio



Settembre 1999. Sono a casa mia, seduta al tavolo di cucina con Carlo, mio marito, eccezionalmente è presente anche mia sorella Serena.
La scena che segue è lei in genere che la racconta “con mucho gusto”.
Premette che bisogna tenere a mente quella famosa sequenza del film “Ricomincio da tre” in cui Massimo Troisi, precipitatosi in bagno con una scusa, dà libero sfogo alla propria gelosia (a cui l’ideologia post sessantottina del film non dava diritto di cittadinanza) ripetendosi allo specchio lo scambio di battute appena avuto con la sua ragazza:
“E tu, hai mai fatto l’amore con un altro?”
“Sì, certamente!”
“PAH!” (un colpo al cuore)…

Dice che la reazione di Carlo assomiglia tanto a quella del protagonista: al mio annuncio che sarei andata in Africa e che non stavo scherzando ma facevo sul serio, non osò dire che la cosa non gli andava giù e che non ne voleva sapere. Cercava di demotivarmi, adducendo perplessità, complicazioni, impedimenti pseudo-logici, ma era come se dentro di sé si ripetesse:
“Vado in Africa…”
“PAH!...”
Il fatto è che ero veramente decisa e quindi tutte le obiezioni, tutti gli ostacoli anche di natura economica frapposti da mio marito, si infransero contro la mia serena fermezza e non ci fu verso di smontarmi. Alla fine se ne fece una ragione.
Mi ero da sempre trastullata col pensiero che prima o poi sarei andata in Africa e anche lo dicevo, ma naturalmente in casa nessuno ci faceva caso e neanch’io mi prendevo troppo sul serio.
Quella volta però Bruna mi aveva convinta a rompere gli indugi: saremmo partite a metà gennaio.
Bruna era una mia amica, ex ostetrica dei consultori familiari che anni prima, raggiunta la pensione (erano i bei tempi dei diciannove-anni-sei-mesi-un-giorno) se ne era andata in Senegal e vi aveva vissuto per più di sei anni.
Io l’avevo conosciuta poco ai tempi del consultorio, ma quando lei aveva scritto dall’Africa ai suoi ex colleghi, chiedendo un piccolo aiuto per sostenere agli studi alcuni bambini Thiès, vicino Dakar, dove aveva avviato un ambulatorio ostetrico, le scrissi e iniziai a darle una mano per la raccolta dei fondi. Da lì restammo in contatto e lei tante volte mi invitò a raggiungerla. Io dicevo che sì, mi sarebbe piaciuto andare e che di sicuro ci sarei andata, ma più avanti…
Adesso che era rientrata in Italia e aveva in programma un viaggio in Senegal, capii che non avevo più scuse: ora o mai più.
Iniziò subito il mio tam tam e così si aggregarono entusiaste le mie sorelle Serena e Jole, più Alessandra, aspirante regista teatrale nonché presunta amica.
Il tempo previsto per la partenza si avvicinava ed io, una volta superato lo scoglio “comunicazioni ufficiali”, ero eccitata all’idea, ma anche vagamente oppressa dal pensiero di quelle tante ore di aereo che mi aspettavano: ogni volta che ci pensavo mi veniva un tuffo al cuore, o un vuoto allo stomaco o come altro vogliamo dire. Il fatto è che io - se proprio devo - l’aereo anche lo prendo. Ma quando la cosa è ormai decisa, con tanto di biglietto acquistato, ecco che la data del viaggio diventa lo spartiacque della mia vita. Il prima sono i giorni che mi restano sereni, quieti e per niente disprezzabili, poi c’è la grande prova e poi forse il nulla o, se tutto va bene, un’esperienza sicuramente affascinante ma che a ben vedere perde attrattiva a mano a mano che si avvicina. Naturalmente le maggiori preoccupazioni sono concentrate sul volo di andata, perché mi dico: che almeno mi possa godere la vacanza… La quale, in ogni caso, sarà un po’ avvelenata dal pensiero del viaggio di ritorno…

Dunque si parte: preparativi e grandi manovre, bisogna lasciare tutto in ordine, si danno indicazioni e si fanno raccomandazioni come fosse un testamento. Nel frattempo mia sorella Serena mi telefona che non vuole più partire, le è venuta la cagarella anche a lei: mi chiama per chiedermi di annullare la sua prenotazione, che non se la sente più, troppo lontano, lasciare i bambini troppo da soli, troppi soldi, troppa fifa…
Quella volta reagii diversamente dal solito: le dissi che non sapevo se era possibile disdire la prenotazione ma che soprattutto non volevo farlo: era stata lei a decidere di venire in Africa e ora non tirasse fuori scuse o ripensamenti dell’ultima ora, e soprattutto non mi addossasse incombenze sgradevoli (e, in fondo in fondo, sentivo che non poteva lasciarmi sola ad affrontare eventuali catastrofi). Si convinse.
L’altra mia sorella, Jole, era abituata ai viaggi intercontinentali, era stata in tanti posti in Europa e più volte in America: una vera donna di mondo. Quindi arrivò da Milano, il giorno prima, carica come un mulo.
Partenza da casa mia alle cinque di mattina, passando per Mestre - via Rielta - a caricare Bruna e poi all’aeroporto Marco Polo, dove ci saremmo incontrate con Alessandra, proveniente da Padova. Da lì volo per Bruxelles e poi Bruxelles- Dakar.
All’aeroporto, a quell’ora di mattina, in attesa di avere notizie del volo, gironzolavo un po’ dandomi un tono, quando vidi da lontano l'allora sindaco di Venezia Massimo Cacciari (stessi capelli neri di oggi). Lo salutai con la mano da pari a pari e lui da lontano mi fece un benevolo cenno di saluto.
Poi l’annuncio: l’aereo della Sabena il quale, giunto a Forlì la sera prima, avrebbe dovuto venire a Venezia per poi ripartire alla volta di Bruxelles, era rimasto bloccato a causa della fitta nebbia, e così bisognava raggiungerlo: sarebbe stato messo a disposizione dei passeggeri un autobus che ci avrebbe portato fin lì a Forlì…
Una bella scocciatura iniziare il volo via terra, ma pazienza, saliamo sull’autobus.
Fatta la tangenziale di Mestre (all’epoca ancora più intasata di oggi e rallentata dalla nebbia) mi aspettavo che imboccassimo l’autostrada. Invece l’autobus si infilò sulla Romea ad una velocità massima di 15 chilometri l’ora.
Sempre alla ricerca di spiegazioni logiche, mi dissi che evidentemente c’era una qualche regola che vietava agli autobus sostituti d’aereo di prendere l’autostrada.
Vedendo in che coda eravamo incastrati e pensando al fatto che di quel passo non saremmo mai arrivate in tempo a prendere la coincidenza per Dakar, cominciammo a rumoreggiare. Al che l’autista, con improvvida faccia tosta, ci rispose che era stato lui a decidere di non prendere l’autostrada (per risparmiare il pedaggio).
Ci imbufalimmo, ce lo volevamo mangiare perché stava mandando a monte il nostro viaggio. Lui rispondeva piccato, infischiandosi delle nostre ragioni, anzi facendo sfoggio di un’arroganza che non potevamo tollerare.
Così io e le mie sodali demmo sfoggio del nostro repertorio di lotta dura senza paura.
Sull’autobus qualcuno faceva il tifo per noi, altri se ne fregavano, tanto per loro era un semplice ritardo. Un signore molto gentile, con uno dei primi computer portatili con connessione in rete e con la vocazione del mediatore, cercava itinerari alternativi per evitare la coda.
Infine arrivammo. Scese dal pullman finalmente potemmo vedere in faccia il simpatico autista che, con tono di voce da uomo sull’orlo di una crisi di nervi, concluse così l’amabile scambio di battute: “Scommetto che non siete nemmeno sposate!” Al che noi, come tante divinità offese, gli girammo le spalle e salimmo in aereo e finalmente partimmo.
Naturalmente a Bruxell arrivammo troppo tardi…
In un aeroporto immenso, girando da uno sportello all’altro, con le addette che parlavano con noi in francese e al telefono in una lingua affascinante e strana che era, credo, fiammingo, non so come, ma riuscimmo a ottenere giustizia: quella notte l’avremmo passata in un albergo a spese della compagnia aerea che l’indomani ci avrebbe organizzato un itinerario alternativo (il volo per Dakar partiva da lì solo due volte la settimana) per portarci comunque a destinazione.
La prendemmo con filosofia: un piccolo cambio di programma con sosta in Belgio, ma almeno tutto spesato. Anzi, mia sorella Serena era più che contenta: l’albergo era ottimo e non c’era alcuna traccia di quelle orde di scarafaggi che temeva la stessero aspettando in Africa.
Prendemmo possesso delle stanze poi io e le mie sorelle uscimmo a fare una passeggiata. Eravamo in un quartiere arabo con tanti negozi di tessuti che ci parevano a buon prezzo. Così io acquistai una stoffa molto preziosa di seta bordò con fili d’oro, con cui Bachy, l’amico di Bruna di Thiès, mi confezionò poi un completo casacca e pantaloni più bello a immaginarlo che a metterlo, che finì i propri giorni trasformato in sciarpetta. Finiti i soldi che avevamo dietro, ci comprammo un gran panino arabo imbottito all’araba con carne e spezie varie da dividere in tre: lo addentavamo a turno con morsi che già prefiguravano la fame che pensavamo di dover affrontare.
La cena in albergo era self service e si poteva prendere ciò che si voleva. Ne approfittammo allegramente ma ancor di più l’indomani mattina a colazione, quando, utilizzando a mo’ di sacco una piccola federa di cuscino (recuperata da mia sorella Jole, la donna di mondo) la riempimmo sotto gli occhi allibiti degli altri ospiti di paninetti, burretti e marmellatine che ci portammo dietro e che ci durarono per tutte le colazioni della vacanza.
Per farla breve, da Bruxelles volammo a Madrid, da qui a Las Palmas e finalmente alla volta di Dakar dove giungemmo verso la mezzanotte e con un solo giorno di ritardo.



(continua, forse)



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