martedì 30 aprile 2013

In gita!

Sotto le mentite spoglie di turisti stagionali, noi bovesi di una volta ogni anno, in estate, torniamo a Bova. Spesso anche a Pasqua e ogni tanto perfino in pieno inverno.
Questa coazione a tornare non si spiega facilmente: fuori stagione Bova è più che altro noia e delusione. Capita pure che piova e faccia freddo e sembra che con i bovesi contemporanei non si abbia granché da spartire…
Ciò fintantoché non incontriamo un vecchio conoscente, un amico o un’amica d’infanzia, un ex compagno di scuola…  Allora il tempo scompare e ci pare di essere quelli di un tempo.
C’è un amico di mia sorella, un suo vecchio compagno di liceo, che ora fa il medico e il sindaco, che ogni volta che si incontrano è come se fossero ancora a scuola. Si mettono subito a passare in rassegna personaggi sempreverdi: Coppolino, l’improbabile insegnante di matematica e fisica con difetto di pronuncia, a cui tutti facevano il verso: “Professore, professore, ci faccia una ppecie di cchema alla lavagna”, Baseperaltezza, la  ragazza a forma di rettangolo, la Disorientata, una professoressa assurda che arrivava in classe e chiedeva “Come fate a orientarvi se non avete la bussola, se non c’è il sole, né le stelle, né gli alberi con il muschio rivolto verso nord?” E che alla fine, dopo che non si trovava nessun appiglio da manuale di sopravvivenza, se ne usciva candida  “Ma come, ragazzi, ma non lo sapete? Ma con i punti cardinali, no?! Si stabilisce prima il nord, poi l’est, poi l’ovest …”  Ma come cavolo si facesse a stabilire dove era il nord  restò sempre un mistero.
Chi se ne frega, mi verrebbe da dire: fatti loro, loro rimembranze, ognuno ha i ricordi che si merita. Il fatto è che immancabilmente il sindaco-dottore prima o poi arriva alla  famosa gita di S. Elia di Palmi, organizzata dal loro liceo alla quale partecipai anch’io.
S. Elia di Palmi
E che cosa ripete ogni volta? Che cosa gli è rimasto impresso di tutta quella giornata? Che io, appena scesa dal pullman, correndo verso una fontanella il cui fondo era ricoperto di acqua stagnante, nell’impeto della corsa caddi comicamente, imbrattandomi di uno schifosissimo limo verdastro che mi rovinò il mio bel vestitino jacquard con le maniche a palloncino e buona parte della giornata.
Che poi io quel ricordo l’avevo sepolto nei più oscuri meandri della memoria! Ma pare che lui abbia fatto il voto di riesumarlo, e con sadismo lo ripropone ogni volta che ci incontriamo, riattivando in me quella sensazione di imbarazzo e dissonanza tra la donna emancipata e pronta a partecipare al banchetto della vita che mi sentivo dentro e la ragazzina goffa, complessata e inadeguata che ero.
Il capitolo gite scolastiche è uno dei capisaldi dell’epopea familiare, perché a casa mia le vicende ad esse collegate solitamente prendevano gli accenti della tragedia greca.
A casa mia la parola gita-scolastica era un quasi-tabù, che si sommava ad altri termini ed espressioni  impronunciabili del tipo: ragazzo/fidanzato, feste, andare a ballare, uscire con le amiche, andare alle giostre. Il tabù gita-scolastica era di rango inferiore ma foriero di facili complicazioni. Il copione era più o meno lo stesso: mia sorella Serena tornava a casa con la notizia che la sua scuola stava organizzando una gita. Non erano mai viaggi interplanetari, la meta raggiungeva al massimo una delle località turistiche della zona: Gambarie d’Aspromonte, Copanello, lo Zomero o, appunto, S. Elia di Palmi. Non più di tre/quattro  ore di pullman.

Gambarie d'Aspromonte
Naturalmente per mia madre questa notizia era già di per sé una pugnalata alla schiena, che dimostrava ancora una volta la nostra ingratitudine filiale, il menefreghismo di mio padre, il cattivo esempio che ci si passava da una sorella all’altra “Ania Catania e terra senza patruni” (mia mamma si esprimeva a proverbi, questo era uno dei suoi preferiti che neanche noi abbiamo mai capito esattamente che significa, ma che si potrebbe tradurre più o meno con “ognuno fa quel cazzo che gli pare” ).Seguiva una lunga trattativa che coinvolgeva mio padre (dato che si doveva affrontare anche l’aspetto economico della cosa) e un tira e molla a non finire. Si faceva ricorso anche al parere di altri familiari che, se le trattative andavano a buon fine per noi, mia mamma chiamava Giuda e Traditori. Pagando la quota di iscrizione, si poteva accodare al gruppo qualche altro familiare e così di solito si aggregava mia sorella Jole, un po’ più grande. Per legge le spettava, dato che non aveva fatto le scuole superiori (cosa che fu a lungo un suo cruccio, finché non riuscì a frequentare, anni dopo, una scuola per contabili a Reggio Calabria, che le permise in seguito di impiegarsi a Milano in una grande azienda). Solo quella volta di S. Elia ero riuscita ad andarci io, probabilmente Jole era a Milano, in “vacanza” dai fratelli più grandi.
Solitamente dunque io rimanevo a casa mentre Jole e Serena andavano in gita. Loro merenda al sacco con panino e cotoletta e tante altre cose buone, io a casa a mangiarmi il fegato e sorbirmi le paranoie di mia mamma. Sì perché era chiaro che mia mamma avrebbe passato tutto il tempo a immaginare catastrofi e fin dal primo pomeriggio si sarebbe appostata alla finestra a scrutare la strada, per vedere se arrivava il pullman o comunque la cattiva notizia. Più o meno verso le quattro e mezza si metteva di vedetta,  e per ingannare l’attesa mi mandava avanti e indietro ad eseguire ordini sempre più agitati a mano a mano che passava il tempo. Quella volta della gita a Copanello il pullman, sulla via del ritorno, si ruppe. Più di cinque ore di ritardo. Non c’erano telefoni né usavamo piccioni viaggiatori e dunque mia madre fu sicura dell’ineluttabile catastrofe e la sua reazione fu all’altezza delle aspettative…
Andiamo per ordine. Erano le cinque e mezzo e io avevo già fatto tre giri alla bottega a comprare il detersivo per i piatti, cinquanta lire di citrato contro l’acidità di stomaco e mezzo chilo di pane di grano (una cosa alla volta, naturalmente); due volte dalla vicina a chiedere nonricordocosa e messo sottosopra il primo cassetto del comò alla vana ricerca delle forbici. Se cercavo di allontanarmi, anche con la scusa dei compiti, mia mamma mi chiamava in continuazione, chiedendomi di fare questo o quello a casaccio. Penso che forse già si immaginava le mie sorelle morte in fondo a un qualche burrone, dietro a quella maledetta curva, e non voleva perdere anche me.
Mio padre al pomeriggio dormiva, e anche quel giorno, svegliatosi e preso il caffè, se ne era uscito per andare in sezione. Ulteriore elemento di frustrazione per mia madre, con le figlie disperse e il marito che se ne andava come se niente fosse a giocare a dama.
Alle otto di sera, sempre appollaiata presso il balcone, dietro le imposte accostate quel tanto che bastava a farle vedere fuori senza essere vista, cominciò a battersi i pugni sul petto, all’uso antico, a ritmo cadenzato e accompagnandosi con una cantilena sinistra in cui piangeva le figlie morte, ribadiva il suo ruolo di Cassandra, affibbiava a ciascuno la sua colpa e in particolare a mio padre che se ne stava in sezione a giocare a dama come se niente fosse, mentre tutti i nodi venivano al pettine. Io ero là nei pressi, cercando di scomparire per non darle altri spunti, colpevole com’ero col mio essere figlia. Naturalmente non volevo crederle e mi dicevo che faceva sempre così, che come ogni volta alla fine ci sarebbe stata una spiegazione logica, che tutto si sarebbe risolto, ma anch’io vivevo la sua stessa angoscia. Quando finalmente rientrò mio padre cercò di calmarla dicendole “vedrai che ora arrivano”, che se fosse successo qualcosa lo si sarebbe saputo e via dicendo, e con ciò esacerbandola ancora di più. Nemmeno ci mettemmo a tavola quella sera, mio padre si fece “apparecchiare” una sedia davanti alla televisione e mangiò pane e salame, seguendo distrattamente i programmi, più per darsi un contegno che altro mentre mia mamma non si mosse nemmeno dal balcone. Io all’epoca ero inappetente e quindi forse sbocconcellai qualcosa forse no, ma nessuno se ne accorse. La situazione era sempre più tesa, mia madre stava per giungere al parossismo della sua crisi isterica, quella che di solito culminava in una specie di crisi epilettica che la faceva diventare dura come un legno e cadere a terra strabuzzando gli occhi. Con terrore me la aspettavo da un momento all’altro, non riuscivo a immaginare altra via d’uscita… Finalmente verso le undici e mezzo vedemmo passare sulla nazionale un pullman, ma purtroppo mi sembrò diverso da quello che avevo visto al mattino. Non dissi niente per guadagnare un po’ di tempo. Ma fortunatamente dopo neanche dieci minuti sentimmo uno scalpitio e qualche risatina su per le scale, ed ecco ri-materializzate le gitanti. Fintamente contrite pur se pienamente giustificate da motivi di ordine superiore ma fondamentalmente felici, con ancora nel cuore e nelle orecchie le cantate a squarciagola del viaggio di ritorno. Le odiai per quel loro divertimento malamente dissimulato, ma almeno l’agonia era finita. Ci fu sollievo, certo, ma non ci furono abbracci. Per mia madre la “scusa” che l’autobus si fosse rotto e avessero dovuto aspettare che ne arrivasse un altro, non bastava certo a cancellare quel tragico pomeriggio, né la colpa della loro ostinazione a pretendere di partecipare a quella gita che se anche era finita bene, avrebbe potuto essere fatale. Perciò che fosse ben chiaro per quell’anno di altre gite non se ne parlava.
E io?
Io ci andai appunto l’anno dopo,  proprio a quella famosa gita di S. Elia di Palmi…

 

 

Post più popolari