Il piccolo triangolo di pelle nera che ricopriva il sellino della mia bicicletta era un posto che ci si stava veramente bene.
Abitavo ancora a Marghera e, grazie alla nuova pista ciclabile, potevo finalmente andare al lavoro in bici, facendola finita con la calca maleodorante degli autobus.
Partendo dalla CITA, il famigerato quartiere dormitorio, mi buttavo nel sottopassaggio della stazione e sbucavo a Mestre: via Dante, via Querini, piazzale Donatori di Sangue, via Rosa in contro mano e infine Calle Due Portoni, secondo piano. In venti minuti ero già lì che timbravo il cartellino.
Ogni mattina, dopo aver superato il trauma della sveglia, aver fatto colazione, essermi lavata e sommariamente vestiva (cercando qualcosa da mettermi al buio, a tentoni, per non disturbare il Grande Russatore) inforcavo gli occhiali da sole, infilavo i guanti se era inverno, le cuffiette per ascoltare la musica e via! A pedalare verso l’ufficio.
La strada era sempre la stessa ma l’atmosfera ogni giorno diversa, a seconda della cassetta che avevo scelto: l’allegria scatenata dei ritmi brasiliani, il fascino esistenziale di Giuliette Greco, il pathos dei bassifondi e la erre rotolante di Edith Piaf che cantava “Milord”.
Arrivata al sottopasso dovevo stare attenta, perché iniziava in curva e ci si poteva scontrare con chi pedalava in senso inverso.
Nell’ultimo tratto di salita, o appena fuori dal tunnel, quasi sempre incontravo l’Uomo Che Correva: in maniche di camicia sia d’estate che d’inverno, una pesante cartella di cuoio in mano e un giubbetto al braccio, galoppava trafelato cercando di prendere il treno (credo).
Ogni volta mi dicevo che prima o poi l’avrei fermato per dirgli che era un personaggio da film, e che gli avrei fatto firmare un contratto…
Poi mi godevo la vista di tutti i giardinetti che circondavano le case dei ferrovieri, che scandivano con i loro colori il passare delle stagioni. Sognavo di avere anch’io una casa con un po' di verde, me ne sarebbe bastato un pezzetto, tanto da piantarci le rosa e il gelsomino.
Annusavo l’odore del pane fresco che usciva dalla bottega del fornaio, coglievo qualche scorcio di conversazione su cui poi andavo avanti a fantasticare.
Da quell’osservatorio mobile guardavo tutti con benevola superiorità, mi sentivo la padrona del mondo e mi godevo la libertà fugace di quel non luogo tra casa e lavoro in cui non c’era nessuno che si aspettasse qualcosa da me.
martedì 13 marzo 2012
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