Ho
vissuto per i primi sei anni della mia vita i una casa a Tripepi, un rione di
Bova Marina, paesino che si incontra percorrendo la strada provinciale (che
noi chiamiamo nazionale) da Reggio Calabria verso Taranto e viceversa. Tutte le case di Tripepi davano direttamente sulla strada, al di là c'era la ferrovia e subito dopo la spiaggia e il mare... Dunque alla
prima stanza si accedeva direttamente dalla strada ed aveva diverse funzioni.
Ci dormivano i miei genitori nel letto grande e anch’io, in un lettino vicino alla porta, sulla
sinistra entrando. Era anche la stanza di ricevimento: se arrivava qualche ospite,
gli si portava una sedia facendolo accomodare vicino l’uscio, sempre aperto
sulla strada.

Quello era il regno di mia sorella Tita, che studiava ragioneria a Reggio e grazie alla radio riusciva a concentrarsi, estraniandosi dal contesto familiare, dalla confusione di noi bambini che correvano avanti e indietro e dalle direttive a raffica di mia madre.
Sul fondo, sempre a sinistra, c’era la porta che introduceva alla seconda stanza, quella in cui dormivano Tita, Cilla, Nanda, Jole, Serena e Fiorenzo (ne mancano ancora due all’appello: Chicca, la più grande e Pino: di loro non ho ricordi in quella casa perché erano andati via che ero troppo piccola).
Al centro di questa seconda stanza c’era un tavolo quadrato attorno al quale mangiavamo, chi sulla sedia, chi sul “casciuni”, la grossa cassapanca che serviva da contenitore, da sedile e da letto.
Poi si usciva in cortile: a destra c’era destra una cucinetta a legna. Un po’ più avanti, sulla sinistra, il gabinetto: un buco praticato sul pavimento con attorno una specie di gabbiotto senza porta.
In fondo uno spazietto recintato in cui tenevamo qualche gallina.
Mi ricordo che di affitto pagavamo tremila e cinquecento lire al mese.
Ogni tanto, quando torno a Bova, ci passo davanti ma non la riconosco più, è stata modificata, spostate le porte, chiusa la finestra e chissà che altro. Ma se mi capita di passare dalla parte di dietro, quella dei giardini su cui si affacciava il nostro cortiletto, ho come un tuffo al cuore e mi vengono in mente tanti episodi vissuti da quelle parti.
Mi ricordo quando, all’inizio dell’autunno, alle prime pioggerelline, rientravamo dal cortile con un asciugamano in testa e andavamo bisbigliandoci all’orecchio una all’altra: “mi rrivau na goccia d’acqua e mi dissi chi tu si storta” o altri scherzetti rituali e scaramantici, come quando mio fratello Fiorenzo, offeso per un presunto torto subito, se ne stette tutto un pomeriggio seduto sul “casciuni” con l’ombrello aperto “Così faccio malaugurio e muoio”, o quando nel cortiletto mia sorella Serena si sedette su una gallina e le tirò il collo (la buontempona di nostra zia Carmeluzza le aveva detto che così le faceva fare le uova con due rossi).
Quando
ero piccola misuravo tutto col metro della mia casa. Se pensavo alla Madonna,
la vedevo con il mestolo in mano a dispensare la minestra ai suoi familiari,
proprio a quel tavolo quadrato della nostra seconda stanza; quando mio padre mi
raccontava la storia di “Mastru Cicciu senza paura” che contava una a una le
mosche che erano finite nel suo piatto di lenticchie, ed erano centocinquanta,
io me lo immaginavo che le tirava su una per una dall’aluzza, e le appoggiava
sul ripiano tra la cenere della nostra cucinetta…