Incoraggiata da un blogger amico, pubblico un mio racconto, in merito al quale devo fare qualche precisazione (soprattutto per chi, leggendolo, pensasse di riconoscere luoghi e personaggi):
benché sia ispirato a fatti realmente accaduti, e benché io non abbia saputo rinunciare ad usare i veri nomi dei protagonisti, ho usato liberamente i materiali a mia disposizione, incrociando le memorie, riempiendo i vuoti, aggiustando e inventando a mio piacimento...
Quella mattina Mela si era alzata ancora più presto del solito.
Era sempre la prima, in casa, a venir giù dal letto al mattino, sia in estate, quando era bello godersi il fresco da sola mentre gli altri dormivano, che durante l’inverno, quando veniva giù dal letto a piedi nudi e tutta intirizzita correva ad accendere il fuoco.
Si scaldava un po’ di caffè d’orzo avanzato dalla sera prima, addolcito col miele e poi fuori… A volte usciva di casa che non ci si vedeva nemmeno, a inventarsi i lavori più strani senza rendersi conto dei pericoli, come quella volta che si era inerpicata a raccogliere fichi d’india, guidata dal bagliore dei frutti rossi che rilucevano come lumini nell’oscurità. Quando infine sopraggiunse l’alba, si rese conto di essere stata per tutto quel tempo in bilico su un burrone.
Quella mattina era estate e c’era già luce e il sole non avrebbe tardato a infuocare la campagna.
Rimase a casa e fece toletta con più cura del solito: si lavò la faccia, si insaponò il collo e poi bene dietro le orecchie, pettinò a lungo le trecce.
Voleva finire di cucirsi la gonna che si stava preparando per la festa di S. Anna. Trovò ago e filo e si mise seduta sull’uscio di casa, un asciugamano steso sulle gambe a preservare il lavoro e i piedi appoggiati a un’altra sedia. Doveva fare l’orlo, una serie di punti minutissimi e invisibili, e poi aveva in mente di aggiungere qualche abbellimento: dei piccoli fiocchetti di nastro rosa proprio dove si aprivano i due piegoncini sul davanti che davano ampiezza alla gonna.
Pensò con eccitazione che poteva anche indossarla, con la scusa degli ultimi ritocchi, e magari pavoneggiarsi un po’, come se ci fosse “qualcuno” ad ammirarla.
Se “qualcuno” fosse passato davanti alla sua porta aperta, magari con la scusa di chiedere un bicchiere d’acqua, ecco che l’avrebbe vista tutta elegante!
Chi potesse essere questo “qualcuno” non lo pensava con le parole ma lo aspettava con i suoi sensi di diciassettenne allertati e in subbuglio…
Il padre di Mela aveva ingaggiato due giovani di S. Pasquale per fare gli innesti alle viti. La sua era una famiglia di piccoli coltivatori diretti piuttosto agiata: a Marucumbu i terreni erano buoni e rendevano bene. I suoi avevano perfino un servo. Di quando in quando Don Saverio chiamava gente esperta per i lavori più delicati, come questa volta: non si trattava di braccianti, ma di lavoratori capaci e tenuti in una certa considerazione.
Mela li aveva visti due giorni prima, quando era andata a portare la colazione a suo padre come faceva spesso. Una pagnotta di grano duro, che loro stessi cuocevano nel forno di pietra, un pezzo di soppressata e fave fresche, che erano di stagione e suo padre ne andava matto.
Andando, sapeva che c’erano altri contadini, e sua madre le aveva dato anche un’anforetta di vino, la tipica bumbuledda di terracotta. Quella che, oltre alla solita imboccatura, ha un forellino nella parte alta da cui i veri uomini, appoggiata la brocca alla spalla e inclinatala elegantemente a mano rovesciata, bevono a gargarozzo.
Quando arrivò e vide quei due giovani che lavoravano curvi a petto nudo, rimase come imbalsamata a fissare le goccioline di sudore che imperlavano le larghe schiene, finché non arrivò suo padre che le strappò brusco il fagotto dalle mani e la rimandò indietro con un cenno del capo.
Non una parola era stata detta, ma uno dei due si girò e le fece un cenno di saluto al quale lei non rispose.
Tornò indietro di corsa, incespicando sul terreno accidentato. Si sentiva agitata, non capiva cosa fosse, solo si sentiva la faccia in fiamme e un gran vuoto all’altezza dello stomaco, una strana euforia e un vago senso di colpa. Arrivò a casa trafelata e sua madre la guardò storto, le disse di andare a vedere se Micuzza aveva bisogno, o da Bruna che stava spaccando fichi. Per fortuna fu svelta a dire che doveva andare per erbe.
Lei era una vera conoscitrice di erbe selvatiche, sapeva scegliere quelle per curare o da mangiare, a seconda della stagione: quelle per farci ottime minestre e quelle da bollire e poi ripassare in padella con lardo e mollica di pane.
Andare per erbe la rilassava, l’avrebbe aiutata a rimettere in fila i pensieri che adesso le si sparpagliavano per la testa.
Mela aveva 17 anni e nessuna esperienza sentimentale. Anzi non le era mai capitato di vedere così da vicino maschi giovani che non fossero i suoi fratelli (Peppino, caduto della “Grande guerra” di cui si ricordava appena, e Francesco, da lei amatissimo, e che poi sarebbe morto nella Seconda Guerra Mondiale).
L’educazione allora era ispirata, inutile dirlo, alla più intransigente morale sessuofobica. Anche con i figli di don Vincenzo i “più” vicini di casa, Carruzzu e Nonu, adesso che erano cresciuti si dovevano tenere a distanza. Non per niente non si davano più il “tu” ma il “voi”.
Le figlie femmine, si sa, erano una grossa rogna e la preoccupazione dei timoratissimi genitori era quella di vegliare ferocemente su di loro e preservarne l’illibatezza, da offrire come marchio di garanzia al primo buon partito che avesse la ventura di capitare.
Perciò non ci capiva niente in tutto quel batticuore e quell’allegria da urlare e ridere, tra la paura di essere scoperta e la voglia sognare. Non aveva con chi confidarsi. Non certo con sua madre…
Donna Teresa aveva i lineamenti duri e asciutti e lo sguardo di una Bernarda Alba. Capelli lisci con scriminatura centrale raccolti dietro in una bassa crocchia intrecciata. Sempre vestita a lutto stretto secondo le tabelle ufficiali. (Il lutto si doveva portare per un dato periodo a seconda del grado di parentela col defunto, e, dato che le famiglie erano solitamente numerose, c’erano donne che come Teresa vestivano di nero tutta la vita).
Lutto strettissimo dunque per una donna austera come lei: anche gli orecchini a pendaglio erano ricoperti di stoffa nera! Una donna implacabile con la vita. Un macigno in tutto, feroce e spietata anche con se stessa: di proposito si faceva andare il sapone dentro gli occhi per lavarli.
Era lei l’uomo di casa, il marito era un bonaccione, un inetto che si aggrappava ai precetti del catechismo come a un corrimano sul precipizio della vita…
Non lo amava quel marito debole che altri avevano scelto per lei. Certo non gli mancava di rispetto, e non si sognava minimamente di farlo nemmeno col pensiero, ma sta di fatto che non lo amava e preferiva allontanarsi il più possibile da casa. Infatti era sempre impegnata in grandi manovre: ora dai parenti di Brancaleone a fare il sapone, ora ad organizzare e dirigere banchetti di nozze. La chiamavano dai posti più lontani per risolvere diversi tipi di questione, era un portento nell’indovinare il sesso dei nascituri…
Intelligente, energica, indipendente: tutto il contrario del marito, Saverio, un credulone di cui si prendevano gioco perfino i nipoti.
Si dice che una volta abbia creduto alla storia raccontatagli da Pino, futuro figlio di Mela, il quale si era inventato di un uomo a cui era caduta in fronte una ghianda che lì aveva fatto radici; e che poi quest’uomo se ne andava in giro con l’albero sulla fronte, e quando voleva dar da mangiare ai porci, bastava che scuotesse la testa…
Probabilmente questa ennesima storia sul nonno credulone se l’era inventata Pino. Ma, come si dice, non c’è fumo senza arrosto, e sicuramente Saverio non era una cima.
Per sua fortuna le convenzioni ed i ruoli sociali erano una impalcatura rigida e sufficiente per non farlo franare. Bastava attenersi agli usi ed ai dettami della morale corrente, cadenzata dai precetti religiosi, per “sfangarla”.
Una volta che Mela, bambina, di ritorno dalla messa, senza pensarci sputò per terra, la costrinse a raccogliere e rimettersi in bocca lo sputo perché aveva preso la comunione.
Solo in un caso ebbe un comportamento dissonante rispetto ai dettami imposti dalle convenzioni e dall’idea di rispetto che imponeva di tenere i figli a una certa distanza, facendosi dare e addirittura dando del “Voi”.
A una delle sue figlie, poi morta precocemente di vaiolo, consentì una confidenza che meravigliava e sconcertava gli osservatori: la teneva sulle ginocchia e la faceva giocare, e lei, Matilde, ricambiava con affetto ed effusioni quel papà che non la sgridava mai.
…Tornando a Mela, neanche poteva confidarsi con le sorelle. Micuzza era severa e intransigente come sua madre e con Bruna, più vicina d’età, non c’era nessuna complicità ma invidia e gelosia.
Quella a cui aveva voluto veramente bene non era più lì: sua sorella Giovanna si era sposata e con i due bambini e il marito, qualche anno prima, se n’era emigrata in America.
Quanto aveva pianto allora! Per quanto tempo, trovando in giro nei dintorni della casa la scarpetta vecchia di uno dei bambini o qualcosa che era appartenuto alla sorella, sentiva un nodo che le stringeva la gola e un senso di vuoto totale le faceva versare lacrime di nostalgia. Perché Giannina non l’aveva portata con sé?
Ogni tanto arrivava una sua lettera dall’Altra Parte del Mondo, che lei leggeva a tutta la famiglia, dato che aveva fatto fino alla terza elementare. Quando arrivavano le lettere di sua sorella dall’America si emozionava tutta, ma pur senza capire perché, alla fine le rimaneva uno scontento, un’insoddisfazione che lei attribuiva alla nostalgia. Ma non era proprio quello, era come se sua sorella non fosse neanche più sua sorella. Dentro quelle lettere non ci trovava più niente della vita di prima che a lei mancava tanto, niente dei luoghi che conoscevano assieme, quelli delle erbe selvatiche da raccogliere a gara, niente del ricordo di quando impastavano il pane per le infornate gigantesche che erano il loro vanto, niente da dividere ancora. Sua sorella Giovanna, là in America, a Buffalo, guidava la macchina, i suoi figli parlavano l’americano e mai più si sarebbero ricordati di Zia Melina, della storia della Gatta Mamona o di quella di Masciu Cicciu Senza Paura che ogni tanto lei gli raccontava per farli stare buoni.
Ci fosse adesso, Giannina avrebbe potuto spiegarle cosa le stava succedendo, e cosa fare, come comportarsi…in fondo lei era sposata e chissà quante cose aveva imparato stando là in America! Forse a lei avrebbe avuto il coraggio di parlare, ma forse neanche a lei. La scena di poco prima, nella vigna, le si parava davanti ostinata come un mulo e la trascinava in fantasticherie così accaloranti che, si rendeva conto, era meglio non parlar tanto e starsene da sola.
Da lontano vide sua sorella Bruna che entrava nella stalla, rallentò il passo per non farsi vedere, come a scansare un pericolo. Bruna era furba e più disinvolta di lei e non l’avrebbe smessa di fare domande se la vedeva con quella faccia. Avvertiva un senso di pericolo, sentiva che era meglio tenersi alla larga dal suo raggio d’azione. Le venne da pensare come sarebbe stato bello se Bruna fosse sparita, almeno per un po’! Si mise a fantasticare che fosse allontanata da casa, anche solo per qualche giorno, per un qualche motivo di Ordine Superiore…
Forse che non andava ogni tanto a Brancaleone a passare un po’ di tempo da sua comare? E proprio in quei giorni comare Ninuzza non aveva partorito? E non sarebbe un gesto di rispetto andare a darle una mano per i lavori pesanti?
Le sembrava un ragionamento logico, a farci caso ineluttabile: eh sì, è evidente che dovrebbe andare, deve andare, dunque che vada! Che se ne stia per un po’ via di casa…
Naturalmente Bruna non andò a Brancaleone da comare Ninuzza che tra parentesi non era neanche a casa sua ma dalla suocera e naturalmente li vide, i due giovani. E siccome non era come lei che al solo pensiero di parlargli le si chiudeva la gola, ma spigliata e simpaticona, il giorno dopo, sulla rruga, attaccò perfino discorso con uno di loro, Micu, che le aveva chiesto dell’acqua, proprio come Mela si era immaginata che potesse fare con lei…
La "rruga" ero lo spiazzo in terra battuta davanti casa, che loro tenevano sempre pulito, spazzandolo ogni mattina con una scopa fatta di rami, dopo averlo spruzzato con l’acqua perché non si levasse troppa polvere. Al limite dello slargo c’erano due ulivi e i due giovani erano là che riposavano al fresco, la schiena appoggiata ai tronchi nodosi.
Bruna aveva portato un secchio foderato con foglie di fico pieno di fichidindia, Micu si offrì di sbucciarli.
Sbucciare i fichidindia non è facile, ci vuole una certa maestria per evitare di riempirsi di spine. Si deve piantare la forchetta al centro del frutto, senza andare troppo in profondità, poi tagliare due rotelline ai lati, praticare un taglio longitudinale, scostare i lembi della buccia in modo che, così sollevata, sia possibile introdurvi le dita e, toccandola solo per la parte interna, staccarla dal frutto tutta intera.
Sbucciava e parlava con Bruna, sempre con educazione, senza prendersi confidenze si capisce, ma con un’aria allegra sotto, come se volesse dire altro.
Mela aveva diciassette anni e nessuna esperienza amorosa, ma capì che doveva intervenire: se non poteva allontanare sua sorella, doveva almeno farsi notare.
Ma come? Che poteva farci lei se diventava rossa subito? Non sapeva cosa avrebbe potuto dire che non fosse stupido e non voleva certo farsi ridere dietro. Era proprio una guerra persa, peccato! Micu le sembrava proprio bello, nella sua testa lo assomigliava a Rodolfo Valentino, di cui le parlava sempre la sua amica Carlotta, che si vantava di averlo visto al cinematografo nel film dello sceicco (che era un principe indiano o qualcosa del genere) e che aveva due occhi che a guardali ti bruciavano come il fuoco…
Appunto. Ma lei non aveva neanche il coraggio di guardarlo in faccia! Poi le venne un’idea. Usare gli occhiali neri che suo fratello aveva comprato quando, il mese prima, era andato a Reggio. Con quelli poteva gustarselo a volontà, tanto sicuramente nessuno si sarebbe accorto di dove guardava…
Si mise gli occhiali e se lo guardò a volontà e naturalmente Micu se ne accorse. Poi, dato che quel giorno i due lavoranti erano invitati a mangiare da loro, servì lei la carne, e di tutto il pollo gli mise nel piatto il cuoricino…
Micu non diede segno di accorgersi di niente ma di certo la cosa non gli dispiacque se, da lì a tre giorni, finito di lavorare, fece in modo di incontrarla, all’altezza del giardino.
Lei tornava dal “cuniculo” e camminava svelta, portando in testa l’anfora piena d’acqua, che teneva in equilibrio appoggiata su una coroncina fatta di pezze vecchie. Poteva camminare per ore senza tenerla con le mani e senza farla cadere, ma certo non si aspettava di veder materializzarsi d’improvviso quel volto e quegli occhi su cui proprio in quel momento stava fantasticando… Fece un salto all’indietro, mentre un suono strozzato le uscì di bocca…
(Quella sera dovette inventarsi una scusa veramente ben pensata per giustificare la rottura dell’anfora: raccontò tutta agitata che una serpe le si era parata davanti sul sentiero e pareva volesse saltarle addosso…)
Dopo l’iniziale imbarazzo, con la gonna inzuppata d’acqua che le si appiccicava alle gambe, ed in mano l’inutile coroncina di pezza, rimase stupita lei stessa di come fosse facile parlare con Micu: le erbe, le bestie, il formaggio, e come si faceva da loro il caglio, la ginestra da cui ricavava il filo per le coperte che poi tesseva, il raccolto… non erano discorsi da vergognarsi, chi poteva dire niente?
E allora, perché si sentiva come se stesse facendo peccato mortale? Più ancora di quella volta che per sbadataggine aveva sputato in terra dopo essere tornata dalla comunione…
Forse era per quegli occhi che le scavavano il cuore e che davano un altro significato a quei discorsi, come se ci fosse un codice mai studiato che capiva come per magia e attraverso cui la timida Mela si scopriva, lei stessa con meraviglia, audace incantatrice d’uomini.
Quel suo segreto le dava un’intima euforia, la faceva sentire diversa, come cambiata, più grande, più donna… si era scoperta capace di trovar continui pretesti per uscir fuori, allontanarsi da casa, snocciolar scuse con tale naturalezza da non destar sospetti. Così spesso si avventurava dalle parti della vigna, senza avvicinarsi troppo, per non incappare nel padre, ma abbastanza per un saluto da lontano, un cenno con la mano, un’occhiata intensa. “Occhi di calamita niri niri” li disse poi Micu, nei versi che le dedicò pensando a quei loro primi incontri.
Purtroppo i lavori alle viti finirono, l’eccitazione che l’aveva animata negli ultimi tempi lasciò il posto a svogliatezza e malinconia, tanto che perfino sua madre se ne accorse e si chiese se non fosse malata. Di giorno si eclissava e più di una volta la trovarono addormentata dentro un tronco d’albero cavo poco distante da casa mentre la notte non riusciva a chiudere occhio. Si girava e si rigirava sul pagliericcio, ogni tanto le sfuggiva un sospiro e Micuzza la guardava seria mentre Bruna non perdeva occasione per stuzzicarla “Ma si può sapere che cos’hai? Che ti è successo?”
E in fondo cos’era successo, cosa c’era stato? Proprio niente! Cosa le faceva pensare che Micu non l’avesse già dimenticata? Che stupida a pensarci ancora, si sa come sono i giovanotti. E poi lui andava spesso alla Marina, dove c’erano le botteghe e le ragazze si mettevano le calze di seta ed erano abituate a girare e a parlare con tutti…
Cosa vuoi che stia a pensare a una della campagna, in mezzo a tutte quelle distrazioni!
Eppure non si capacitava e senza confessarselo lo aspettava…
Due settimane dopo, all’altezza della ggebbia di Masciu ‘Ndria, dopo la seconda curva della fiumara, camminava svagata e assorta nelle sue fantasticherie. Era uno di quei tardi pomeriggi estivi che sembra non debbano mai finire, l’odore di paglia che si insinua sottile sotto il naso e giallo abbagliane ovunque. Camminava distratta, lo sguardo perso verso sud, a seguire le curve della fiumara, a indovinar il mare dietro quell’azzurrino lontano… In testa una cantilena di quelle sue che le facevano compagnia quando stava da sola…
Per fortuna questa volta non portava l’acqua, perché di nuovo una figura d’uomo, sbucata da dietro l’armaciera , le tagliò il passo. La coppola calata sugli occhi e i movimenti concitati le fecero gelare il sangue: un brigante? un ladro, un forestiero?
Ci mise un bel po’ a capire, a causa del controluce, poi finalmente lo riconobbe: Era Micu.
Micu! Micu è tornato! Micu non se l’è dimenticata!
Le batte il cuore e pensa ad aggiustarsi la gonna che aveva tirato su per poter camminare più sciolta, poi si riprende e si predispone mentalmente a ripercorrere i sentieri di parole delle altre volte. Cerca febbrilmente qualcosa da dire che non sia troppo né troppo poco, annaspa nel vuoto, non coglie il senso dei suoni che arrivano alle sue orecchie…
Che sta dicendo Micu? Parole staccate che non riesce a mettere assieme, di cui le sfugge il significato: S. Pasquale… nascondersi… le acque… per un po’ … si calmino …Fuggire…
Mela resta imbambolata con la bocca aperta e la mente che insegue quell’ultima parola che non riesce ad afferrare…
“Mela, hai capito o no? Se mi vuoi bene, devi venire con me! Adesso, subito, ce ne dobbiamo scappare…”
Micu la scuote come per svegliarla, poi le spiega che aveva parlato con suo padre e sua madre, che la voleva sposare… Che prima gli avevano detto di sì e poi di no, che non glie la davano più: preferivano sposarla ad un cugino che stava per tornare dall’America.
Ma lui non voleva rassegnarsi, non vuole rassegnarsi: ormai Mela l’ha stregato con quelle sue trecce lunghe e con l’eleganza semplice e riservata dei suoi modi…
Perciò è venuto a prendersela, perché la vuole, le vuole bene per davvero e le dice di seguirlo, se anche glie ne vuole…
E lei glie ne vuole, glie ne vuole, ma come fa?
Come fa a lasciare la sua casa, le sue cose, le sue bestie, i suoi lavori? Come fa a mancare di rispetto a suo padre, a sua madre, a suo fratello? Come fa a saltare quel fosso?
Fino a quel momento non ha mai dovuto decidere niente di importante, tutto veniva da sé, c’erano regole e codifiche per ogni comportamento. Ma decidersi a scappare! Affrontare un mondo tutto nuovo nel quale ridisegnarsi il proprio posto…
“MELA, HAI CAPITO COSA TI HO DETTO? SE MI VUOI BENE DEVI SCAPPARE CON ME!
TRA UN’ORA, ALL’IMBRUNIRE, CI RITROVIAMO QUI ALLA GEBBIA”
Come si fa a “scappare” a cosa si deve pensare? Mela vorrebbe prendere tempo per riordinare i pensieri che le sfuggono continuamente, deve concentrarsi, deve pensare, deve pensare…
Micu intanto è nervoso, si guarda intorno per vedere che non arrivi gente, la guarda e non capisce perché lei non dice niente, sembra che non ce la faccia proprio più…
Mela, semiparalizzata, finalmente riesce faticosamente a mettere assieme un pensiero suo: l’ho deluso, tra un po’ se ne andrà… e amen, addio bellezza, l’avrò perso… Per sempre… Forse è meglio così: ognuno per la sua strada e niente pensieri né di giorno né di notte… Poi ripensa a quelle notti insonni passate a immaginarselo con le femmine della Marina, a come voleva esserci lei con lui a farlo ridere e a ridere a gola aperta, pensa che se non si decide adesso non dormirà mai più: e come potrebbe, con il magone e la rabbia e il dispetto per tutte quelle sfrontate del paese?
Allora parla e dice Sì! Sì! Sì! Subito, tra un’ora, all’imbrunire, in questo stesso posto, dietro alla gebbia di Masciu ‘Ndria, ci sarò!
E poi se ne scappa via di corsa senza girarsi e tenendosi la mano a pugno su quella bocca che si è lasciata sfuggire parole così definitive.
Piano piano si calma e arriva a casa sua, dove tutto le appare diverso da ciò che aveva lasciato poche ore fa.
Cerca di fare come se niente fosse successo e ripete i gesti di sempre ma si sente goffa, o troppo veloce o troppo lenta, risponde si o no e si aspetta di essere smascherata da un momento all’altro.
Entra Bruna a prendere un cesto, dice due parole e se ne esce subito senza accorgersi di niente.
Superato lo scoglio di sua sorella, Mela ridiventa padrona di sé e le viene da pensare quant’è buffo che l’arguta Bruna non solo non s’è accorta di niente, ma chissà come resterà domani a bocca aperta a mangiarsi il fegato, intanto che lei sarà chissà dove con quel bel giovanotto che piaceva tanto pure a lei…
A ben vedere non è affatto difficile fuggire, non c’è da prepararsi né da avvertire né da salutare nessuno. Con aria indifferente mette assieme poche cose, trova facile facile un’altra scusa per uscire di nuovo, e via…
La luce sta per calare e quella giornata che pareva non dovesse finire mai sta arrivando a conclusione. Si allontana da casa facendo tutto un giro strano, andando dalla parte opposta rispetto alla sua meta.
Ogni tanto si ferma perché le pare di sentire una voce che la chiama, e invece è un ronzio che la avvolge tutta come in una nuvola, poi si apposta dietro un tronco per guardare indietro e verificare se qualcuno la insegue.
Finalmente ecco la gebbia di Masciu Ndria. Non c’è anima viva, nessun rumore… Le manca il coraggio, il fiato, il passo: il cuore pare si debba fermare.
Poi la mano di Micu afferra la sua da dietro e la stringe, il sangue riprende a scorrere.
Senza parole Micu le fa dei cenni e la guida, piano piano e con cautela perché c’è ancora un po’ di luce e anche da lontano qualcuno potrebbe vederli.
Camminano curvi facendosi scudo dei cespugli di oleandro, badando a mettere i piedi sui sassi giusti, per passare da una parte all’altra del rigagnolo che li accompagna.
Finalmente arrivano all’altezza del “casalino” dove la stradina svolta a sinistra nascondendoli definitivamente alla vista di chiunque.
Allora Micu si ferma e si gira verso di lei, le sorride e le dice “Donna Mela!”.
Lei lo guarda seria, lo scruta disperata fino al cuore e risponde “Don Micu”.
Micu le riprende la mano, la stringe e se l’appoggia sul petto, dove il suo cuore batte come un tamburo, fissandola e trattenendola finché non vede la paura sciogliersi e dileguarsi dal fondo degli occhi di lei.
E’ ora di sbrigarsi, il buio sta per calare sempre più fitto e c’è tanta strada fino a S. Pasquale.
Tenendosi per mano si mettono a correre a precipizio per quella strada accidentata tra ciottoli e cespugli selvatici che graffiano le gambe, inarrestabili come il vento.
A mela par di volare, di non doversi fermare mai più, di poter continuare quel viaggio all’infinito, col cuore che batte a mille di paura e di allegria…
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Buongiorno Nina. Ho letto senza fermarmi mai.Questa storia ha bisogno di riflessione per lasciare un commento.
RispondiEliminaMa ci tenevo a dirti che ho letto.
Ci risentiremo.
Ciao
grazie Rosy, sei un tesoro
RispondiEliminaa presto
Anch'io ho pubblicato il tuo splendido racconto nel mio blog.
RispondiEliminaSalutoni a presto.
merci merci merci
RispondiEliminaBello, scritto bene senza orpelli,interessante ed emozionante, senza retorica.
RispondiEliminaSei proprio brava e ringrazio 'Cavaliere' per avermi condotta a leggerti
Cristiana
Ciao Nina, ti ho letta dal blog del Cavaliere ed eccomi qui! Mi sono mangiata il racconto in un sol boccone, molto brava, touche! A presto -Nora*-
RispondiEliminaDavvero spendido il tuo racconto. Complimenti!!
RispondiEliminaDavvero bello, complimenti :)
RispondiEliminaQuesto Tuo splendido racconto parla del tempo in cui le Nostre madri erano giovani. Ne ho sentito raccontare di queste storie d'amore con l'epilogo della fujitina, mi strappavano sempre un sorriso. Non ho mai pensato ai sentimenti turbolenti, propri di quell'età, che spingevano una giovane donna ad affrontare, senza mezzi e senza conoscenze, una svolta di vita che in alcuni casi si sarebbe rivelata disastrosa.
RispondiEliminaSpero che per Mela non sia andata così, che quel suo amore sbocciato in tenera età le abbia dato almeno un pò di quanto sognava.
Una lettura scorrevole, oltre che avvincente, che però mi lascia l'amaro in bocca in quella che era la condizione femminile dell'epoca. Ma ora è davvero migliorata quella condizione, o restiamo sempre culturalmente penalizzate nelle nostre scelte così dette libere? Certo siamo più istruite, ma sempre tanto fragili davanti a regole che in sordina non sono mai sparite.
Un abbraccio
ho letto il tuo romanzo mi e piaciuto ,brava continua billo
Eliminacara Francy
RispondiEliminami fa molto piacere che ti sia piaciuto!
Ho cercato di raccontare il coraggio e la spontaneità di scelte difficili fatte per amore.
Ne sarà valsa la pena? Chissà, la cosa interessante secondo me è quel richiamo della vita che fa abbondonare il certo per l'incerto e poi vada come va.
Un bacio
Nina
ciao Cristiana, benvenuta e grazie del tuo apprezzamento. Anch'io sono molto grata al Cavaliere che mi ha aiutato in questa iniziativa.
RispondiEliminaA ritrovarci
Nina
grazie mille Nora!
RispondiEliminaNon sai che piacere le tue parole. Ricambierò la visita
a presto
Nina
Grazie Artemisia, è un piacere per me ospitarti.
RispondiEliminaHai uno splendido nome e non mancherò di venirti a cercare
un saluto
Nina
Catia sei gentile, la tua mano che scrive mi fa pensare che anche tu abbia qualcosa di interessante da farmi leggere
RispondiEliminaa presto
Nina
Bellissimo racconto,Nina,letto tutto d'un fiato.Racconta di tempi diversi,ma anche di amore e di coraggio, sentimenti senza tempo.
RispondiEliminaSei bravissima,e sai emozionare,con i tuoi scritti.
A presto.
Cara Nina, buongiorno!
RispondiEliminaUn racconto antico ma ti devo dire la verità bello, dove il sentimento dell'amore ha avuto sempre il primo posto in ogni epoca.
I genitori prima erano i " gestori" della vita dei figli, c'era chi si arrendeva e chi invece come Mela e tante altre hanno deciso l'incerto per il certo, che poi il certo di allora era una vita piatta.
I personaggi di questo magnifico racconto di vita vissuta ci da la misura di quanto cammino è stato fatto d'allora, dalla Donna, un cammino che se da un lato ci ha dato la libertà di poter scegliere come vogliamo la nostra vita ma paghiamo lo stesso il nostro prezzo.Tutte.
Se questo tuo racconto lo leggessero le ragazze di oggi forse potrebbero riflettere che la libertà che hanno oggi affonda le sue radici in Donne come Mela e forse apprezzerebbero non solo chi ha lottato per dare alle figlie femmine la libertà di poter essere libere di scegliere l'amore e la propria vita.
Forse sono uscita fuori tema, se è cosi scusami, ma la riflessione parte dal tuo racconto ma poi si è allargata a raggi.
Parlare di un'epoca attraverso un racconto, porta a riflettere sull'epoca che stiamo vivendo.
Grazie e credo che questo tuo racconto andrà sul cantastorie e adatto
non credi?
Un bacione e buona giornata
ciao Rosy
RispondiEliminagrazie delle belle parole anche a nome di "Mela" che sicuramente ne sarebbe gratificata, se potesse leggerle...
Certamente non in maniera consapevole, ma solo scegliendo le ragioni del cuore, ha fatto scelte coraggiose e anticonvenzionali, e poi ancora altre che, se troverò il bandolo, proverò a raccontare ancora.
Un abbraccio Nina
P.S. ci troviamo da te
ciao Chicchina
RispondiEliminasono contenta delle tue parole.
Ti ringrazio anche per la tua sensibilità e delicatezza (messaggio in codice da decifrare)
Sono veramente contenta di aver colto l'invito del Cavaliere del Web che è stato con me gentilissimo e paziente a insegnarmi certe manovre computeristiche e mi ha permesso di entrare in contatto con nuove persone e spero nuovi amici.
Un caro saluto e grazie anche a te che per prima mi hai introdotto nel mondo dei blog.
Nina
CArA NINA.
RispondiEliminaDavvero un bel racconto . La fujitina a quei tempi era quasi di moda. C'erano delle volta che anche i genitori che non avendo i soldi per affrontare le spese delle nozze incoraggiavano le figlie a fare quel passo ,per non subire la vergogna di non avere una adeguata posizione economica per spsare una figlia .Meno male che i tempi sono cambiati . E bene sia !Adesso quando ci farai leggere il finale di questa storia d'amore? Fammemo sapere . Lina
Ho percepito...
RispondiEliminaHai fatto bene ,il Cavaliere del Web è sempre ricco di suggerimenti idee e sempre disponibile.Questa nuova idea in particolare mi pare efficace,ed hai fatto bene a partecipare.
Quanto al resto,ho solo voluto condividere il piacere di scrivere e confrontarmi,invogliando anche te.Ciao e sempre al piacere di risentirci.
Chicchina, molto bene
RispondiEliminaun saluto e a presto
Grazie Lina,
RispondiEliminavero quello che dici, nel caso di Mela è stato proprio l'amore e la forza della natura
a presto, ciao
Nina allora ringraziamo chicchina
RispondiEliminase oggi sei tra noi.
buona giornata abbraccio
si certamente grazie a Chicchina ed anche alle persone che ho incontrato e mi sono piaciute ed hanno alimentato il mio piacere di scambiare e intrecciare parole.
RispondiEliminaP.S.:
nel messaggio precedente non lo avevo esplicitato: per me sarà un onore se il mio racconto comparirà sul tuo cantastorie
un abbraccio
scrivi molto bene, fluidamente...
RispondiEliminala storia è anche emozionante
per entrare in un blog dipende non solo dal computer, più o meno nuovo e più o meno curato nella manutenzione ordinaria (che a me fa mio marito perché non ci capisco niente), ma anche dal browser con cui si accede... se provo con un altro la trovo impaginata diversamente, più lenta, ecc... succede anche a me con alcuni blog... anche la tecnologia ha dei limiti ;-)
RispondiEliminaciao Pupottina,
RispondiEliminagrazie di tutto, teniamoci in contatto...
Ciao Nina, ti lascio un saluto e un augurio di buona settimana! -Nora*-
RispondiEliminaPasso ad augurarti una serena giornata; saluti a presto.
RispondiEliminaMolto bello, complimenti. e piacere di conoscerti!
RispondiEliminaBenvenuta Stargirl e grazie del complimento!
RispondiEliminaIl piacere è tutto mio e verrò a mia volta a conoscerti.
ciao Nina
Ciao Nina,bellissimo racconto,da cuore in gola,odori e sapori lontani e i due protagonisti di questo fuga d'amore scritta da te con notevole trasporto emotivo,grazie delle emozioni,sono rimasto rapito dal racconto,buona serata,un abbraccio.
RispondiEliminaciao e Acheb e grazie.
RispondiEliminaGli apprezzamenti di chi stimo molto sono graditissimi
buona giornata Nina